COVID-19 – LA MALATTIA È UN CASO, LA SUA GESTIONE NO di Anna Roli

(di Anna Roli) “Un pipistrello muore in Cina, un uomo abbraccia un altro che va in Europa, sedendo accanto a un’americana”, in modo quasi poetico, Gabriele Romagnoli nella sua rubrica “la prima cosa bella di .. (sabato 11 aprile)” riassume la catena di cause/effetto che ha sconvolto il pianeta. L “emergenza epidemiologica dal COVID-19”, ossia l’infezione virale da Coronavirus che sta coinvolgendo con tenacia tutto il mondo (pandemia), è frutto del caso. Casualmente un virus che colpiva gli animali, nelle sue innumerevoli mutazioni, è riuscito ad attaccare l’uomo. L’istinto vitale del virus, quello che, gli ordina di “moltiplicarsi, lo ha fatto diffondere. In questa situazione è innegabile che il COVID-19 era un perfetto sconosciuto e, anche in Italia, a Codogno e Vo’ Euganeo, solo l’intuizione dei medici ha potuto riconoscerlo. Annalisa Malara, 38 anni, anestesista, è il medico che ha intuito la malattia  individuando il focolaio di Codogno. Ha detto: “Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore”. Gli strumenti cardine della prevenzione (vaccini) e della cura (farmaci specifici) non ci sono, bisogna agire con quelli tipici del controllo delle infezioni, ossia dispostivi di protezione collettivi e individuali, isolamento, in questo caso su larga scala. Dopo la  diffusione del contagio ha assunto un ritmo e un volume inimmaginabile, travolgendo le disponibilità del sistema di cura. Così come è innegabile la competenza e l’abnegazione dei ricercatori (spesso precari) con i loro studi e dei professionisti della salute (ai minimi storici dopo i tagli dell’ultimo decennio). Essi stanno costruendo le basi di conoscenza e trattamento di questa malattia. Dalle caratteristiche dell’infezione, ai test rapidi di diagnosi a quelli virologici, fino ai vaccino e ai  farmaci. Il sistema assistenziale, di prevenzione e cura, in continuità tra territorio e ospedale, si sta delineando. Ha visto l’impegno immane di medici, infermieri, tecnici, operatori socio-assistenziali, nei diversi ruoli e diversi ambiti. Si sono visti, però troppi tentennamenti e cambi di rotta nel gestire la protezione.  Innanzitutto la diffusione dell’epidemia è stata sottovaluta. Se per i cittadini questo è comprensibile, lo è un po’ meno per chi gestisce la salute del Paese.  Al disorientamento e allo spavento iniziale doveva subentrare il rigore del metodo e dell’esperienza, che si basano su piani. La pianificazione però non l’abbiamo percepita. Nelle prime circolari del ministero della salute i parametri portavano perfino ad escludere dal riconoscimento e dai tamponi persone malate. Poi il cosiddetto “tamponamento” è stato gestito con approcci diversi tra le regioni, o nella stessa regione. Tutta la popolazione, oppure tutti sintomatici anche lievi e i loro contatti? Oppure solo i soggetti con sintomi importanti? E il tampone agli operatori sanitari? “Si, no, forse un po’”, anche quando si ammalano. Come cittadini, vorremmo conoscere il criterio di priorità scelto, soprattutto per i lavoratori a rischio. E chi è più a rischio dei professionisti dell salute, a contatto con i malati, i sospetti malati, i soggetti fragili, come quelli nelle case di riposo e dei  centri di accoglienza, nelle opere pie?

Sono numerose le voci e i racconti che descrivono la difficoltà ad avere la diagnosi con il tampone: medici e infermieri, cittadini che si sono ammalati o che hanno perso i loro cari (vedi anche il nostro blog e news). È evidente la contraddizione con le disposizioni contro il COVID-19 pubblicizzate (anche ora, in tivù, mentre scrivo): “se avete i sintomi non uscite di casa, chiamate il medico di famiglia, i numeri verdi regionali, il numero di pubblica utilità 1500”. Queste persone ci dicono che a fronte di sintomi e di malattia e alle chiamate telefoniche, molti non riescono ad avere un tampone in tempi utili, sino alle situazioni più estreme, di chi lo ottiene  da morto. E nulla riescono a fare, nonostante gli sforzi, i nostri medici di famiglia.  Possiamo sapere perché? Cosa non funziona? L’istituzione di task force di solito servono per accelerare i percorsi, snellendo l’organizzazione e facilitando l’accessibilità. Perché non è così? Soprattutto i dispositivi di protezione non possono essere assenti dagli strumenti del mestiere dei medici di base, senza dover ricorrere ad emendamenti di decreti legge (perfino bloccati per ragioni economiche). Non devono mancare nella dotazione del personale delle RSA, altrimenti gli “eroi” diventano vettori di infezione e “vittime”. La diffusione è nella natura di un’infezione. La prevenzione invece è una responsabilità di TUTTI. Le responsabilità dei cittadini sono importanti e noi ci stiamo comportando da responsabili e solidali con gli altri, nonostante le difficoltà a trovare mascherine e a seguire istruzioni diverse. La stessa responsabilità la chiediamo, però, a chi governa e gestisce l’emergenza epidemiologica COVID-19. Ci aspettiamo chiarezza, piani e risorse che, pur nel rispetto delle ovvie differenze territoriali, abbiamo come base comune la conoscenza che già c’è sulle infezioni e quelle che si sta consolidando su questa epidemia.

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