Pensieri per il 25 Aprile, di Mauro Moruzzi

( di Mauro Moruzzi)  Buon 25 Aprile a Tutti! Questa mattina riflettevo sulla Festa della nostra Liberazione e mi assalivano tanti pensieri. Un ricordo di quando ero bambino, nei primi anni cinquanta, a Ozzano. La mamma che metteva fuori dalla finestra la bandiera tricolore di carta velina, quella fragile, che ti macchiava le mani di rosso e di verde. Lei che faceva la vetraia e che levigava i vetri con la mole e l’acqua. Un lavoro rischioso e insalubre. E che doveva mantenere tutti noi perché avevano arrestato il babbo, partigiano della Stella Rossa. Accusato ingiustamente di un omicidio politico avvenuto durante uno sciopero dei braccianti. Poi scarcerato, ma quattro o cinque anni dopo, senza nemmeno chiedergli scusa. Un pensiero riferito a oggi, qui, chiuso in casa per il COVD, ad ascoltare alla TV discorsi retorici su quel 25 Aprile, così lontano e così poco attuale. Non perché non siamo attuali i valori della Resistenza e soprattutto della libertà (quella senza la maiuscola, la nostra libertà). Ma perché quei valori non c’entrano nulla con la retorica dei politici di oggi.Poi un pensiero a quegli anni lontani della lotta antifascista. Che ho anche cercato di raccontare, senza spirito di parte, in un capitolo finale del mio ultimo romanzo, ‘Mai Bela Tempo d’Amare’. Che anni erano? E perché la Resistenza, quella con la R maiuscola, inizia solo nel settembre del ‘43.? E nei vent’anni precedenti? Quando Mussolini, dopo la Marcia su Roma, andò al potere, ben pochi furono gli ‘antifascisti’. Fece eccezione un piccolo deputato di Fratta Polesine. Ad ogni seduta del Parlamento parlava per ore, appellandosi al Regolamento. Coperto d’insulti dai banche dei fascisti, infastidito dai lamenti dei liberali di Giolitti (sempre alla ricerca di qualche compromesso con Mussolini), beffato dai comunisti e dai socialisti massimalisti, ignorato dai popolari di Don Sturzo. Ma lui continuava, cocciuto, a parlare, a denunciare i misfatti delle squadracce fasciste nelle sue campagne, con dati e documenti. Ho pensato tante volte a quella mattina del 10 giugno 1924, magistralmente ricostruita da Antonio Scurari in ‘M il figlio del Secolo’. Un libro che tutti dovrebbero leggere. Lui, mingherlino, cammina sul Lungo Tevere, tra la gente, come sempre vestito diligentemente, con giacca e cravatta, diretto verso Montecitorio. Lo avevano picchiato già tante volte, preso a manganellate. Era stato perfino sottoposto a sevizie fisiche dagli squadristi di Balbo. Cammina con la sua borsa di documenti. Poi si ferma vicino a lui un’auto con quattro ceffi dentro e lo rapiscono.  Nell’indifferenza dei passanti. Lo uccidono, lo sepelliscono in un bosco. Tutti hanno visto, nessuno parla. Rompeva le scatole a tanti quel Matteotti. Ai socialisti che lo lasciarono solo. Ai comunisti che premevano su Mussolini perché stabilisse buoni rapporti diplomatici con l’URSS (cosa che come poi il Duce fece). Ai liberali che odiavano quel figlio di buona famiglia padronale del rovigotto, laurea in giurisprudenza, passato dalla parte dei miseri scariolanti. Sì, Giacomo Matteotti non ha aspettato l’arrivo dei carri armati  Alleati per combattere il fascismo. Lui la bandiera della libertà l’ha tenuta alzata da solo, prendendosi una pugnalata sul fianco, seduto nell’automobile dell’ex ardito Dumini. Matteotti non aveva più un partito. Era solo. A lui i primi fiori per ricordare la nostra libertà. Viva Matteotti, Viva la resistenza, sempre.

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