Una ginecologa ci scrive. Ecco il mio calvario COVID19

Mi rivolgo a voi direttamente per raccontare la mia esperienza di medico ammalatosi a seguito dell’infezione da Covid 19 e per poter avere una cassa di risonanza al fine di sottolineare alcune falle nel sistema di sorveglianza per il contenimento della diffusione dell’infezione da Coronavirus.

Io sono un medico specialista in ginecologia ed ostetricia che lavora in libera professione su 3 ambulatori. La mia storia inizia alla sera del martedì 10/3/20, al ritorno dal mio ambulatorio incominciò a sentire cefalea, mialgie/artralgie e febbre di circa 38 gradi centigradi, con una leggera tosse e una lieve rinite, una anosmia  e un’ incapacità a sentire i sapori unitamente ad inappetenza. Subito penso al Covid 19 e quindi telefono al 1500 e dopo circa mezz’ora riesco a parlare con un operatore che fa la segnalazione e mi dice di telefonare alla mattina seguente al mio medico di base.
Il mio medico mi mette in sorveglianza domiciliare e procede alla segnalazione per la richiesta di un tampone anche perché vivo nell’appartamento di fronte a mia sorella, pediatra di base e mia madre di 91 anni, inoltre frequento una persona affetta da leucemia linfatica cronica per il momento asintomatica per tale patologia. Finalmente da lunedì 16/3/20 la febbre passa e con lei gradualmente anche gli altri sintomi, tuttavia il signore che frequento, da venerdì 13/3/20 incomincia ad avere anche lui febbre alta 38/39 gradi centigradi con tosse che rende necessario il ricovero al Sant”Orsola di Bologna  il martedì 17/3/20 con diagnosi di polmonite da Covid 19 e in quel giorno viene fatta il tampone al paziente e da quel momento parte la segnalazione dei suoi contatti fra i quali c’ero io e altre persone. Nel frattempo il 18/3/20 informo di questo evento il medico di base, il quale sollecita la richiesta di tampone che ancora non avevo eseguito. Risento il medico il 25/3/20 dicendogli che non avevo ancora eseguito il tampone quindi il mio medico ribadisce che la mia quarantena sarebbe finita il 30/03/20. Il 26/3/20 finalmente ricevo la telefonata del sistema di sorveglianza il quale non mi da’ però nessun appuntamento.
Mi decido quindi, il giorno dopo di arrabbiarmi e di insistere per tale tampone e dopo qualche ora ho l’appuntamento agoniato cioè il  28/3/20.
Al test risulto positiva e al 31/3/20 il servizio epidemiologico telefonicamente mi chiede i contatti dopo più di 20 giorni da quando è partita la mia storia. Tutto ciò dimostra:un errore nell’indisponibilità ad effettuare i tamponi a domicilio soprattutto quando si è all’inizio dell’ infezione senza complicanze. Inoltre tutto ciò comporta un ritardo all’accesso alle eventuali cure mediche che nei casi meno gravi potrebbero essere prestate a domicilio riducendo così gli accessi ai pronto soccorso e alle terapie intensive.
La rigidità dei protocolli dettati dal servizio pubblico non permette ai medici di base una libertà nella diagnosi ed inoltre sono impotenti nel richiedere il tampone contribuendo così ai ritardi diagnostici e terapeutici come detto sopra. Per non parlare dei contatti che vengono presi in considerazione troppo tardi contribuendo così ad  una diffusione dell’infezione.
Proporrei quindi di dare una maggiore libertà di diagnosi e di prescrizione dei tamponi ai medici di base, e una formazione di gruppi di medici che possono intervenire in aiuto ai medici di base per la cura. a domicilio dei malati in particolare nelle fasi iniziali della malattia. Infine non bisogna mai trascurare la protezione di qualunque operatore sanitario e in particolare, voglio tirare una freccia alla mia categoria di liberi professionisti, che non vengono mai informati dal servizio pubblico e mai dotati di protezione cioè per la sanità pubblica noi siamo dei fantasmi. È proprio grazie a questa dinamica che purtroppo io mi sono ammalata nello svolgimento della mia professione. Grazie!
S. B.

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